Una storia quasi solo d’amore. Intervista a Paolo Di Paolo

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6746649_1311070Se c’è qualcosa di casuale in un romanzo è quel lampo iniziale – una voce, una storia, una scena – che spinge a raccontare tutto il resto. Quel lampo, nell’ultimo romanzo di Paolo Di PaoloUna storia quasi solo d’amore (Feltrinelli, pp. 171, euro 15), è tutto nell’incipit, come conferma lo stesso autore. È in quell’ «Eravate bellissimi. Soprattutto verso sera, sfiniti dall’ultimo tentativo di ripetere la stessa battuta» che Di Paolo trova la voce del suo romanzo. Da quel momento, ogni attimo è pensiero, ogni personaggio un universo da esplorare.

La storia – quasi solo d’amore – è quella di Nino e Teresa. Lui, poco più che ventenne, è un aspirante attore. È appena tornato a Roma, con un diploma di recitazione in tasca, conseguito a Londra. È spavaldo, con il furore dell’ambizione che solo certa giovinezza e inesperienza conservano intatto, come inscalfibile. Lei ha trent’anni, lavora in un’agenzia di viaggi, ha meno ambizioni di Nino ma anche le idee più chiare e vive il suo presente con l’impegno, le esperienze e le ideologie che si è costruita nel tempo. Si incontrano davanti a un teatro ed è subito mistero per entrambi. Sullo sfondo di una Roma ben descritta («A Roma un’epoca è questione di metri»), Nino e Teresa si lanciano verso un sentimento nuovo, quasi fosse una scommessa. Nino è confuso e turbato dal fascino di lei: la osserva, le piace, starle accanto lo costringe a pensare, a porsi delle domande e a farne sempre di più a sua volta. Teresa è la nipote di Grazia, amica e insegnante di teatro di Nino. Grazia è anche la voce narrante, quella zia che tutto sa e tutto vede perché è da una prospettiva privilegiata, postuma, che può guardare i due ragazzi.

Grazia propone a Nino un corso di teatro («Laboratorio teatrale per la terza età, frequenza un giorno a settimana, lunedì pomeriggio, spettacolo finale a maggio»). Nino ne è sconvolto: il punto non è se si sente all’altezza del compito («ovviamente sì, per carità, si sentiva più che all’altezza»). Il punto è l’età media dei suoi allievi: sessantacinque, settant’anni, pensionati senza il furor sacro della recitazione, con il solo obiettivo di divertirsi e trascorrere un pomeriggio in compagnia preparando uno spettacolo. Nino accetterà e sceglierà di mettere in scena – non a caso – Le false confidenze di Marivaux.

È su questi due nuclei – il sentimento tra i due che diventa scoperta e il rapporto dei personaggi con il tempo e con il teatro – che si muove il romanzo di Di Paolo. È come se l’autore stesso chiedesse ai suoi personaggi – Grazia, Nino, Teresa, gli stessi anziani frequentatori del corso di teatro – di essere presenti, attivi, partecipi della contingenza e al tempo stesso fuori dalle cose, in un altro tempo, in una dimensione candida, non ancora corrotta, dove ci si può ancora stupire. È in quei due avverbi del titolo – quasi e solo – che Di Paolo autore, come Nino personaggio, si affaccia a una scoperta, quella del romanziere a tutto tondo che si appresta a raccontare la nascita di un amore. Una fatica creativa doppia stavolta quella di Di Paolo: creare non solo i personaggi che si muovono, pensano, agiscono all’interno della storia e dello spettacolo teatrale ma anche la voce narrante che è, agisce, pensa, sa. Un doppio filo e uno sguardo che un narratore onnisciente forse non avrebbe potuto rendere così carezzevole. Distante abbastanza da cogliere l’insieme della storia, eppure così vicino, da sentire l’essenza pulsante di Nino e Teresa.

Resta il tempo, il grumo fondante della scrittura di Di Paolo. Il tempo percepito, scandagliato, vissuto come un’ossessione. È presente nello sguardo di Nino che guarda gli anziani («Attribuiva a una forma di invidia insensata il loro borbottio costante, quel soffio catarroso che raggelava il mondo circostante e il suo entusiasmo – i nunzi dell’apocalisse imminente. Ecco, era questo: l’invidia per il tempo che un altro ha davanti») e lo è nello sguardo di Grazia («Eravate bellissimi, sì, e lo spettacolo della giovinezza, agli occhi di chi l’ha perduta, è sempre un miracolo che fa tremare e incazzare, anche. Ma se c’è tristezza, è sempre per sé stessi, non per voi, mai, da esseri umani, così poco deludenti e in possesso dell’unica ricchezza che si possa invidiare sul serio – il tempo che si ha davanti») e lo è ancora negli occhi di Teresa («Guardo gli orologi sulla parete dell’agenzia, li guardo spesso: uno dà l’ora di Pechino, un altro l’ora di New York, e poi Los Angeles, Parigi, Sidney, mi arriva come una vertigine, sempre, un lampo d’ansia, vorrei essere dappertutto, vorrei non perdermi niente»).

Il tempo della giovinezza trattiene ancora lo stupore, la maturità rivela il timore di spegnersi dietro a un mestiere («Qualcosa sopravvive – il talento, che diventa mestiere: più raffinato, più disinvolto.Ma lo stupore? E l’attenzione autentica, profonda, che ci teneva legati alle cose per ore, alle scoperte della vita intellettuale, alle parole degli sconosciuti, un po’ a tutto […] Non brilliamo più. Qualcuno, da lontano, scambia per luce vera il neon freddo e sterile del saperci fare»).

Di Paolo, con Una storia quasi solo d’amore, compie un salto in avanti come romanziere. Si sente nella scrittura l’intento di trattenere tutto quanto appreso finora e la voglia impellente di leggerezza, di fluttuare attraverso il racconto, di raccontare universi sconosciuti. L’immagine della copertina riporta non a caso un uomo – probabilmente Nino – che nuota dentro la testa di una lei – Teresa – come se questa fosse il mare, un paesaggio sconfinato di cui lui non ha la mappa («Mi piace, di te, questo essere adulta. La tua testa di meccanismi complicati come un orologio, piccole ruote dentate, viti, rocchetti, leve e anelli, niente di più misterioso e di più perfetto, e certo uno poteva aver visto nascere i fiammiferi e la locomotiva a vapore, il primo lampione a elettricità, il telefono, il televisore o il primo computer grosso come un comodino, ma nulla poteva essere più stupefacente di te, stasera, davanti a me»). Ed è ancora una volta la scoperta, lo stupore, il viaggio a contraddistinguere il percorso di Paolo Di Paolo così come proprio la scoperta e lo stupore tirano le fila del suo ultimo romanzo. Perché vita e letteratura in certi scrittori, in fondo, coincidono.


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Una storia quasi solo d’amore sembra tu abbia mollato gli ormeggi: una scrittura libera, indifesa, leggiadra che pure racconta in profondità i sentimenti dei personaggi. Come se avessi dimenticato, finalmente, tutto quello che hai imparato in una vita. È così?

Forse mi sono poggiato meno a “stampelle” preesistenti, come biografie e materiali d’archivio. Ho fatto al quarto romanzo quello che di solito si fa al primo, mi sono lanciato all’inseguimento dei personaggi, in modo più libero del solito (sono contento che tu abbia utilizzato l’aggettivo). Quello che impariamo e abbiamo imparato è difficile dimenticarlo, ma si può lasciare appena fuori dalla porta.

Racconti una storia d’amore, un tema forse abusato, trattato da molti scrittori, ma anche uno dei più complicati con cui misurarsi. Quali erano i timori quando hai cominciato a scrivere il romanzo? Ti sei posto un confine di demarcazione, delle trappole nelle quali non volevi cadere?

L’amore non è mai un tema abusato. Diciamo che si può trattare in parecchi modi, con diversi accenti e tonalità, ma è il primo e l’ultimo sentimento che davvero conti nella nostra esistenza. Il confine di demarcazione è già definito dal titolo, l’ho pensato all’inizio, volevo scrivere esattamente “una storia quasi solo d’amore”, dando gran peso a quei due avverbi e evitando, questo sì, eccessi di sentimentalismo o virate al rosa, che rispetto ma non è nelle mie corde.

Ci sei riuscito?

Questo dovranno dirlo i lettori. Lo spero. Sicuramente è il libro che volevo fare.

Quanto tempo hai dedicato alla stesura?

Ho cominciato a pensarci appena dopo aver pubblicato Dove eravate tutti, i primi appunti risalgono al tardo autunno del 2011. Poi ho scritto Mandami tanta vita. Dopo un periodo in cui ho solo preso appunti, ho scritto il libro nel corso di un anno, a più riprese.

La voce narrante è quella di Grazia, zia di Teresa e insegnante di Nino. Lo hai stabilito fin dall’inizio o l’idea di dare la voce a questo personaggio è giunta in seguito?

Non avevo messo subito a fuoco la possibilità di questa voce narrante. A un certo punto si è palesata come in una piccola apparizione linguistica la frase “Eravate bellissimi”, e lì ho capito quali potevano essere lo sguardo e la voce. È venuto fuori un racconto che si avvicina e si allontana dai personaggi continuamente, su più piani temporali.

di_paolo_paolo01Grazia sostiene: “Qualunque nostra azione, se non viviamo nel deserto, ha un pubblico. Diffidente, ansioso, partecipe, stronzo. Non fa che commentare, dire la sua a voce alta, o sottovoce a chi, mezz’ora dopo, commenterà altro con altri, te con i tuoi nemici. È questo pubblico di merda a tenerci vivi, a farci vivere […] Siamo tutti uno spettacolo per qualcun altro”. Tu che rapporto hai con i tuoi lettori? 

I lettori che ti raggiungono sui social per dirti cosa hanno amato (o non amato) del tuo libro sono sempre un gran conforto. Il fatto stesso che qualcuno, tra migliaia di libri, scelga il tuo è un piccolo miracolo. Per il resto, è chiaro che – come per ogni gesto creativo, artistico – il rischio di non piacere va messo in conto. A volte, certi giudizi sbrigativi che leggo in rete (anche su libri non miei) mi fanno un po’ rabbia. Uno spende magari due anni a mettere in piedi un romanzo, e un altro lo demolisce in tre secondi. Ma Anton Ego, il critico gastronomico del film Ratatouille, ammoniva: anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale.

C’è stato un momento – quando hai vinto un premio o quando hai dialogato con uno degli scrittori che hai prima amato e poi incontrato o mentre scrivevi uno dei tuoi romanzi – in cui hai avuto la consapevolezza di essere diventato uno scrittore?

Con l’approdo a Feltrinelli e l’attenzione ricevuta da Dove eravate tutti ho sentito di essere arrivato a un primo traguardo. Ma continuo a chiedermi ogni giorno, e non per falsa modestia, “sono uno scrittore? Che scrittore sono?”.

Molta narrativa contemporanea si muove tra saggio e romanzo. Ci sono esperimenti di questo tipo particolarmente riusciti?

Ce ne sono molti. Amo soprattutto quelli non programmatici, e quegli scrittori che trovano la loro “forma” senza quasi cercarla, come se fosse dettata da ciò che vanno scrivendo. Penso a Sebald, certo, a certe cose di Carrère, di Cercas, al Progetto Lazarus di Hemon, ma anche al nostro Trevi.

Un’opera che ti ha forgiato è Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Hai affermato: “Senza, non sarei quello che sono”. Come ha contribuito la Recherce alla tua formazione?

Leggere a diciassette anni, o forse a sedici, non ricordo bene, la prima parte della Recherche è stata una rivelazione. Ha contribuito in modo determinante perché sono rimasto come incantato. Lalla Romano ha raccontato una volta di avere avuto la sensazione, leggendo Combray, che il romanzo che lei voleva scrivere l’avesse già scritto Proust. Vale anche per me.

paolo-di-paoloQual è il tuo rapporto col tempo?

Sono sempre in affanno e in ritardo su tutto, come hai potuto verificare tu stessa rispetto ai tempi di questa intervista. Quanto al Tempo in generale, ne sono ossessionato, in fondo non scrivo che di quello, è il vero che lega tutti i miei libri, se ci pensi.

Ripensando al tuo percorso, fulmineo e anche prolifico, si avverte un’esigenza spasmodica di fare, sapere, dialogare, scrivere, pensare. Quanta fretta e paura hai?

Molta fretta, sempre. Anche paura, sì, di sbagliare, di perdere tempo. Mi pare un’avventura troppo ricca la vita per sprecarne anche solo una mezza giornata.

Perché scrivi? Te lo chiedi ogni tanto?

Scrivo soprattutto per fare pace con il tempo. Riempio il presente, scrivendo; ricontatto il passato; immagino un futuro – anche solo per i personaggi.

Con Mandami tanta vita, hai raccontato la storia di Piero Gobetti. Di Gobetti è conosciuto il nome, forse meno la sua storia. Qual era il tuo obiettivo principale? C’è qualcosa che ti ha sorpreso dopo la pubblicazione?

La sorpresa è stata sapere che molti lettori hanno voluto approfondire la figura di Gobetti. Leggere cose sue, studiarlo. Io non volevo scrivere un romanzo storico, ma lavorare sulla breve vita di un giovane prodigioso. Capire come avesse fatto a stringere in un tempo tanto corto tutta quella vita – intellettuale, emotiva, politica.

maxresdefaultMoraldo e Piero raccontano due diverse giovinezze: quella di Piero è risolta e sicura; quella di Moraldo è più dubbiosa e tentennante. Anche in Una storia quasi solo d’amore ci sono due giovinezze diverse: quella di Nino e quella di Teresa. Giovinezza e maturità sono due temi su cui ti sei soffermato più volte.

Mi interessa la staffetta fra le età, i diversi sguardi sul mondo, il punto in cui finisce – se finisce – qualcosa. Nell’ultimo romanzo, ero incuriosito dal rapporto fra due giovinezze diverse e dal rapporto di queste giovinezze con età più avanzate. Non considero la giovinezza un valore di per sé e non mi piace la retorica sclerotizzata giovani contro vecchi. Ma spesso nei primi venti trenta anni della nostra vita c’è qualcosa di più puro e incondizionato in noi che tende a corrompersi. Non in tutti, in quasi tutti temo.

Che cosa pensi della critica letteraria di oggi? Hai la sensazione che spesso sia volta più a promuovere il libro che non a ragionare dell’opera in sé?

Molto spesso, in effetti, è solo pubblicità o chiacchiera, giudizio mai approfondito e spesso solo interessato – anche in modo mafioso, per appartenenza a ghenghe, clan ecc. Raro sorprendersi sulle pagine di critici contemporanei. Preferisco scrittori che parlano di libri, con strumenti e orizzonti larghi il più possibile, proprio per differenziarsi dalla sentenza dispotica di chi bivacca nella rete.

Harold Bloom, nel suo saggio Come si legge un libro, pone una domanda al lettore: perché leggere?Perché, secondo te? È “il più terapeutico dei piaceri”?

Posso dire perché leggo io: per passione anche misteriosa, per vivere altre vite, per capire, per sentire più a fondo, per trattenere qualcosa, per mettermi in altri panni. Non so se è terapeutico, ma non riesco a immaginare la mia vita senza libri. A volte ci provo, ma mi risulta impossibile.

Elisa Giacalone

Da http://www.satisfiction.me/una-storia-quasi-solo-damore-intervista-a-paolo-di-paolo/