L’innamoratore. Intervista a Stefano Piedimonte

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innamoratore_piedimonte_300x340Ci sono killer che non uccidono: fanno innamorare. E si fanno anche pagare per la loro arte amatoria. Moderni gigolò? Affatto, visto che i primi a innamorarsi sono loro e che il sesso non è l’aspetto fondante del mestiere.

Quella del conquistatore seriale è la professione di Ivan Sciarrino, protagonista de L’innamoratore (Rizzoli, pp. 269, euro 18), ultimo romanzo dello scrittore napoletano Stefano Piedimonte che approda a Rizzoli, dopo tre romanzi pubblicati con Guanda (Nel nome dello zioVoglio solo ammazzarti e L’assassino non sa scrivere).

Ivan non è un uomo particolarmente attraente, non è un millantatore e ancor meno è attratto dal guadagno facile. Ha semmai un’innata, quanto diabolica, capacità di ascoltare le donne, osservarle, comprenderle, conoscerle scoprendo cosa desiderano davvero, fino a conquistarle, salvo poi innamorarsene a sua volta («Non sono un escort né un ruffiano o un truffatore. È solo che mi piace essere travolto»). I suoi committenti sono uomini d’affari disposti a distruggere i propri nemici; vogliono colpirli nella vita privata, minandone il matrimonio, privandoli dell’amore della propria moglie e, per riuscire nell’impresa, assoldano un professionista come lui, affinché il lavoro sia portato a termine in modo pulito e senza inconvenienti. La paga è buona («Seicento al giorno più le spese, i viaggi, l’affitto dell’appartamento»), ma nell’ultimo incarico qualcosa va storto: Soraya, la cliente da conquistare, scompare nel nulla, qualcuno fa esplodere l’auto di Ivan il quale finisce in ospedale tampinato da due carabinieri, incaricati delle indagini, che chiedono conto e ragione della sua stravagante professione di innamoratore. Ha inizio così l’interrogatorio in un letto di ospedale, con Ivan immobilizzato e bendato per le ustioni che gli ricoprono tutto il corpo.

I capitoli si susseguono su due piani temporali alternati: c’è il presente con il racconto di Ivan che risponde alle domande dei carabinieri e c’è il rimando al passato con quanto avvenuto prima dell’incidente.

Piedimonte stupisce ancora. Dopo aver raccontato la camorra ridicolizzandola (in Nel nome dello zio e Voglio solo ammazzarti), dopo averci fatto immaginare un paesino come Fancuno, dove arriva un serial killer sgrammaticato (in L’assassino non sa scrivere), racconta ora il nomadismo sentimentale e il confine amoroso tra vittima e carnefice, tra amare e farsi amare. Il tutto con una dose massiccia di humour. Il romanzo ha sì un’impostazione noir – c’è un probabile assassino, una vittima e chi indaga – ma se ne allontana per gli esiti. Non c’è atmosfera sordida, non si respira l’inevitabilità di un destino segnato, non c’è la soggettività della narrazione come accade in molti noir.

Il punto di forza de L’innamoratore, più che nello scioglimento della trama, è nella caratterizzazione del personaggio. Indovinato, grottesco, eppure così contemporaneo. Seriale, eppure autentico; calcolatore, eppure candido. Con la capacità di innamorarsi ogni volta come fosse l’ultima. Ivan non finge di essere chi non è, accetta la propria timidezza. Sa di essere un uomo ingenuo, talvolta ansioso, ma sa anche che alle donne piace rintracciare quella fragilità che rende umani («Aveva un talento per conoscere le ragazze, le lusingava con qualche parola goffa e il suo sorriso da bambino, e loro riconoscevano nella sua cretinaggine una certa innocenza, una cialtroneria inoffensiva»).

Tanto è talentuoso nell’intrattenere i rapporti con le clienti, quanto inerme con le donne della sua vita che riempiono la scena senza scomporsi, solo con la loro presenza e capacità di decodificare una realtà a volte complessa per Ivan. C’è Nadia, sua amica e libraia omosessuale che gli dà consigli, c’è la sorella Imma, che lo tampina via mail aggiornandolo sulla situazione di famiglia, mail a cui lui non risponderà mai. Entrambe hanno la capacità di scompaginare i pensieri di Ivan, rivelandogli la complessità dell’universo femminile e fornendogli, forse inconsapevolmente, le chiavi per approcciarsi alle sue clienti, sempre nuove e sempre diverse l’una dall’altra.

Il romanzo di Stefano Piedimonte ha la capacità di scandagliare la psiche umana dei personaggi cavandone la logica così come l’impeto («Fu un attimo, un accesso di cupidigia, in cui Ivan la desiderò con un dolore carnale; non per la smania di possederla, ma per l’urgenza di sentirne la pelle, di strisciarci su il naso e le labbra, di nutrirsene»). Quella di Ivan è anche una presa di coscienza, è in fondo la continua ricerca di un amore a scadenza perché così, secondo lui, è la vita. Rivolgendosi a Soraya, «vorrebbe dirle che non esiste alcun equilibrio, che tutto è così, instabile e incerto, che la vita è soltanto lo scherzo di un infame, e l’unico modo di condurla degnamente è fingere di non averlo capito, aggrappandosi a quel suono di tamburo che ci scuote il petto e cercandone uno uguale, che viaggi alla stessa frequenza, o che abbia voglia di mettersi al passo».

Così la pensa Ivan. Soraya cederà alle sue lusinghe? Perché è scomparsa? Dov’è finita?

Un thriller sentimentale ambientato nelle stradine romane, assimilabili, per l’occasione, ai meandri della mente umana, volta sempre alla conquista perché, come scrive Stefano Piedimonte, «il bello non è stare nei posti, ma andarci; di Roma non sono belle le stanze, ma i corridoi che le spartiscono».

Elisa Giacalone

imgresGiornalista di cronaca nera per circa dieci anni. Quando e come è scattata l’idea di diventare un romanziere?

Prima di diventare giornalista. Ho cominciato a scrivere per i giornali con la speranza segreta di conoscere, un giorno, qualche editore di libri. Sai, fra una cosa e l’altra dovrebbe pur capitare. Almeno, così speravo. Invece non capitò. Mi trovai dopo dieci anni di giornalismo a non conoscere neanche un editore, così mi dissi “ma va’, provo lo stesso”, e provai.

Il tuo ultimo romanzo, L’innamoratore, ha un titolo azzeccatissimo. Ce n’erano altri in ballo?

No. Il titolo è nato prima del romanzo. Ero seduto in aereo a Linate: in quei pochi minuti prima che partisse l’annuncio di spegnere i telefoni, mi venne in mente questo losco figuro assoldato come un killer, che fa un lavoro “nero”, per molti aspetti, e “rosa” per altri. Di solito mi escono personaggi ibridi, molto contrastati. Inviai un’email con una rapidissima sinossi al mio editor, Stefano Izzo, che da bravo professionista mi rispose (lessi la risposta appena atterrato a Napoli): “L’idea è davvero una bomba, per ora posso dirti questo. Però bisogna vedere come la si sviluppa.” È vero: non basta un’idea per fare un romanzo. Non ne bastano neanche dieci. C’è bisogno di una corda che le leghi fra loro, e dev’essere una corda molto forte, altrimenti il romanzo non c’è, e se c’è non tiene.

Dal primo romanzo Nel nome dello zio (Guanda, 2012) a L’innamoratore sono trascorsi quattro anni. Capita di rileggerti? In cosa è cambiato il tuo modo di scrivere?

Mi rileggo molto raramente, e solo se costretto da questioni di lavoro. Sono molto critico rispetto a ciò che ho già scritto, non salverei niente. Rileggermi mi crea imbarazzo, mi sento inadatto, fuori dal tempo in cui ho scritto quelle parole. Sono cambiato nel modo di narrare, nella scrittura, nella cifra personale, e continuerò a farlo. Qualcuno, adesso non ricordo chi, diceva: “Vorrei che ogni mio libro sembri scritto da uno scrittore diverso.” Ecco. Precisamente. Ogni giorno che passa, ci cambia. Ogni giorno siamo diversi. Se i nostri libri rispecchiano l’hic et nunc della nostra persona, e questi libri sono sempre uguali, allora vuol dire che siamo disonesti, e che la nostra scrittura è inquinata da faccende extra-letterarie. O vuol dire che siamo dei santi, ma non conosco romanzieri santi. Anzi.

imgresDa Guanda a Rizzoli. Come hai vissuto il passaggio di casa editrice?

È un discorso molto complesso, che va contestualizzato, e per questo mi permetto di spenderci qualche parola. Bisogna capire che oggi, purtroppo, i rapporti fra un autore e il proprio editore, per quanta stima reciproca ci possa essere (e nel caso di Luigi Brioschi, direttore di Guanda, la mia stima è altissima), non sono più così forti come una volta. È un fatto, un dato pratico: una volta l’editore era un po’ un papà per lo scrittore, lo sosteneva non solo per il singolo libro che stava scrivendo, ma nella vita. Se era in difficoltà economiche, gli trovava un qualche lavoretto per consentirgli di scrivere in tranquillità, c’era uno scambio di lettere molto fitto (le raccolte di lettere fra scrittori non contemporanei ed editori si sprecano), un rapporto che si avvicinava molto di più al mecenatismo. Oggi, purtroppo o per fortuna, vuoi per la situazione economica differente, vuoi per le dinamiche della società contemporanea, il “mercato” degli scrittori somiglia molto di più a quello dei calciatori (con le dovute differenze retributive). È un mercato molto più fluido: lo scrittore è più “solo” di una volta, chiamato a gestire in maniera molto più pressante la propria carriera, quello che possiamo definire il suo futuro. E quindi non c’è nulla di strano se un autore, per un singolo romanzo o per sempre, cambia editore. Sta nelle cose. Non va più visto come un “tradimento” o come una rottura. A volte, come nel mio caso, il passaggio coincide con un brusco cambio nella scrittura da parte dell’autore, con la necessità di sondare altre strade. E comunque un editore, se vuol tenersi un autore, sa come fare. Io nutro un profondo rispetto e una enorme gratitudine nei confronti di Luigi Brioschi, uno degli ultimi “editori puri” rimasti in Italia, uno che per comprarsi i diritti del mio primo romanzo, Nel nome dello Zio, ha lottato contro editori molti più grandi di lui in un senso strettamente commerciale. È stato un leone, e ha vinto. Il legame con lui, almeno da parte mia, non è rimasto assolutamente scalfito, e non escludo la possibilità di continuare a lavorare insieme. Brioschi è veramente un grande uomo, oltre a essere un grande editore. In Rizzoli, d’altro canto, mi aspettavo di trovare una distanza, una freddezza da “librificio” che invece, sorprendentemente, non ho trovato. La casa editrice, enorme com’è, mi si è stretta intorno. Ho avvertito un grande calore, una bellissima accoglienza. Luca Ussia, Michele Rossi, Stefano Izzo hanno partecipato alla lavorazione de L’innamoratore con una cura, una costanza e una premura commoventi. Sono una persona fondamentalmente insicura: senza la loro vicinanza, questo romanzo sarebbe molto meno bello. O molto più brutto. Questo devono deciderlo i lettori.

Il personaggio di Ivan Sciarrino, l’innamoratore, è tratto interamente dalla tua fantasia o ti sei ispirato a qualcuno di tua conoscenza?

Non mi sono ispirato a nessuno in particolare. Ho solo pensato al randagismo sentimentale che contraddistingue la nostra epoca, una mancanza di solidità, di radici, che si riflette ovviamente nelle questioni di cuore.

Poiché non siamo che un sacco di trippe tiepide e corrotte faremo sempre una gran fatica coi sentimenti. Innamorarsi è niente, è restare insieme che è difficile”. Questa l’epigrafe al tuo libro, una citazione di Louis-Ferdinand Céline tratta da Viaggio al termine della notte. Qual è il legame con il tuo romanzo?

Céline è uno degli autori che amo di più, e nel suo Viaggio c’è moltissimo cinismo, ma anche grande speranza, per chi vuol vederla. Poi la frase mi sembra si leghi bene al contenuto del libro.

autoreNel romanzo, sono presenti mail della sorella di Ivan, Imma Sciarrino, mail cui Ivan non risponderà mai. Qual è l’intento di questi inserti?

Intanto quello di descrivere un personaggio, la sorella di Ivan, e la parte che ha nella vita del protagonista. Poi, quello di svelare il lato più “autistico” dell’amore di Ivan: ama la sorella, ma è incapace di comunicarlo. È una delle sue spaventose tare. Imma è specchio di Ivan, ma ne è anche l’opposto. Il suo amore è solido, empatico, caldo. Non ha timidezze.

Michel Houellebecq, in Piattaforma nel centro del mondo, scrive: “È nel rapporto con gli altri che si prende coscienza di sé: ed è proprio questo a rendere insopportabile il rapporto con gli altri”. È forse questo il motivo per cui Ivan fa l’innamoratore? Per prendere coscienza di sé, per conoscersi, per provare continuamente delle emozioni e sentirsi vivo?

Direi di sì. Houellebecq è uno dei miei autori preferiti. Quando esce un suo romanzo vado ad aprire gli scatoloni coi librai per averne subito una copia. Nadia, amica e consigliera (e coscienza, in un certo senso) di Ivan, sarà utile a spiegargli molte cose.

Quali sono, se ci sono, i noir che ti hanno formato e hanno contribuito a farti diventare lo scrittore che sei?

Non leggo moltissimi noir. Comunque, fra quelli che più ho amato: Joe Lansdale, Pete Dexter, Dashiell Hammet, Raymond Chandler, alcuni romanzi di Don Winslow, Elmore Leonard, John Banville e altri.

Sei stato un appassionato di Twin Peaks. Quanto ha inciso nella creazione delle tue favole nere? Cosa ti piaceva di quella serie?

Sono fanatico di Twin Peaks. Ha inciso moltissimo sul mio modo di vedere il noir e il mistico, l’inspiegabilità della materia nera, la trascendenza del male. Della serie di Lynch mi piaceva tutto, ma ciò che mi sorprese di più fu la “strafottenza”, per così dire: la possibilità che nello spettatore rimanesse un’incognita, che restasse, come l’autore, con molte domande, e che non spettasse all’autore rispondere, piuttosto suggerire le domande.

I tuoi romanzi sono molto divertenti anche quando affrontano temi come la camorra, la violenza o la scomparsa di una vittima. Nel caso della tua scrittura, si può parlare di umorismo nero?

Credo di sì. Un autore è sempre il peggior critico di se stesso. Ho provato, soprattutto con questo ultimo romanzo, in cui affronto un ragionamento sull’amore (materia sacra) a non essere ironico. Non ci sono riuscito. Alcuni mi scrivono che il romanzo li ha molto divertiti, altri che li ha molto commossi. Va bene così. Anzi, per me è l’ideale.

Curi una rubrica su Donna Moderna, “Nella testa di lui”. Quali sono, secondo te, gli elementi che contraddistinguono la testa di una donna e quella di un uomo (fermo restando che una distinzione così netta non sia probabilmente possibile)?

Le donne mi spaventano molto più degli uomini. Sono mutevoli, uterine, credi di aver capito qualcosa ma il giorno dopo le tue convinzioni s’infrangono contro il ribaltamento di ogni punto fermo. Ogni tentativo di decriptare la psicologia femminile è destinato a fallire miseramente. Questa, a ben pensarci, è l’essenza stessa del fascino. Il mistero. È tutto lì.

Ivan Sciarrino, rispondendo al brigadiere, spiega: “Esistono tre categorie di uomini: quelli che fuggono davanti a un coltello e lasciano indifesa la propria donna. Quelli che sono disposti a prendere una coltellata pur di proteggerla. Quelli disposti a usarlo, il coltello, purché lei ne esca senza un graffio”. Tu a quale categoria appartieni?

All’ultima.

Si vocifera che i tuoi romanzi stiano per approdare in TV. È così?

Sto lavorando con due amici sceneggiatori a una serie tratta da Nel nome dello Zio. Abbiamo buoni contatti, in via di sviluppo, con alcune reti televisive e qualche produttore. Vediamo come va.

da Satisfiction