Se il futuro editoriale di un esordiente dipendesse dal suo stile di scrittura, Francesca Marzia Esposito sarebbe già sulla buona strada perché il suo, di stile, è riconoscibilissimo. Lo dimostra il suo romanzo La forma minima della felicità (Baldini&Castoldi, pp. 259, 16 euro), uno degli esordi più interessanti del 2015.
Luce vive barricata in casa, non lavora, non studia, vegeta sul divano sgranocchiando fette biscottate davanti alla tv. Il telecomando non le serve. Vede soltanto – di ascoltare non le importa – Canale 32, un canale di televendite no stop di anelli e bracciali. Non esce dal suo microcosmo – un piccolo appartamento di Milano – neanche per andare al supermercato, preferendo il pratico servizio a domicilio. Nessun orologio funzionante in casa a scandire il tempo. La sua esistenza alienata – voluta, rivendicata, difesa – è turbata dall’arrivo di Bambina. Luce la chiama così, il suo nome è in realtà Viola, ha cinque anni ed è sua nipote, la figlia di suo fratello Yuri che non vede da alcuni anni e che è tornato a vivere nello stesso condominio, al piano di sopra. Bambina è muta, o meglio, ha deciso di non parlare più e Luce si ritroverà a fare da zia e babysitter, suo malgrado («Luce – Bambina-muta-rompicazzo: 1 a 0»). Entrambe hanno solo voglia di tacere. Eppure comunicano. Grazie a Bambina, Luce ricomincerà a uscire, inizierà a lavorare in una libreria e per raggiungerla re-imparerà a prendere la metro, il tram e ad attraversare gli incroci. Azioni quotidiane che però aveva ormai rimosso. Anche Viola rinasce, comunicando prima con dei numeri su post-it, poi ordinando telefonicamente uno di quei bracciali sfavillanti in promozione e infine inventando un vocabolario tutto suo.
È una storia di silenzi e assenze quella che accomuna Viola e Luce, dove la famiglia sta alla base di quella piramide sulla quale si sono accatastati negli anni i malesseri, le privazioni, gli imbarazzi e infine quel disagio persistente.
Luce percepiva il fratello Juri come un estraneo («Che cosa sapevo di mio fratello? Che cosa sapeva lui di me? Che cosa sanno i fratelli dei propri fratelli, ma veramente, dico, non parlo di quelle cose da questionario con risposta da selezionare, ma dei cambiamenti, delle lievi modifiche che giorno dopo giorno si mettono in atto, si muovono sotto la pelle, formano trasformano stravolgono illudono sgretolano certezze disfano caratteri innescano speranze idee sogni sotto forma di corpi più grandi, modificati. Di tutto questo, che cosa sanno i fratelli dei propri fratelli? Niente, una sorta di pudore silenzioso ci isola. Vicinissimi. E divisi»), così come distante avvertiva anche sua madre, «perfetta e composta, anche in pigiama. La perfezione era una cosa che le si addiceva, residui tersicorei, attenzione, controllo, non aveva mai smesso di essere ballerina, mai, nella testa formulava pensieri rigidi alla sbarra, ragionamenti lineari, coerenza forzosa a tutti i costi, fortissima ed esilissima, la resistenza della sottigliezza».
Tra un capitolo e l’altro, l’autrice inserisce divertenti avvisi condominiali e stranianti aforismi, firmati D’io. Incursioni testuali che inizialmente disorientano, poi divertono. Il motivo, ammesso che ce ne sia uno, si potrebbe forse ritrovare in uno dei tanti aforismi di D’io: «Queste cose non hanno alcuna importanza. L’importante è dislocare. Nel tempo. Nella memoria dislocare».
La narrazione procede con un ritmo veloce, sincopato che scandisce i pensieri e i dialoghi. Le domande si susseguono rapide, le risposte restano spesso sospese. Pochi periodi lunghi, intervallati da molte frasi brevi, alcune brevissime, talvolta nominali. Alcune di queste, in neretto, procedono in una sequenza verticale che richiama una scansione in versi.
Quello di Francesca Marzia Esposito non è un romanzo che conquista dalle prime pagine, bisogna entrare prima nel suo laboratorio creativo, ma una volta entrati e conosciute Luce, con il suo modo di pensare e di stare al mondo, e Viola con la sua dirompente delicatezza, vien voglia di accompagnare queste due eroine in quel viaggio verso «una qualsiasi forma, anche minima, di felicità».
Elisa Giacalone
“La forma minima della felicità” è il tuo primo romanzo. Come sei arrivata al contatto con Baldini&Castoldi? Avevi provato con altre case editrici?
Terminai di scrivere il romanzo nell’estate del 2011, mesi dopo lo diedi da leggere a Massimiliano Santarossa, fu lui a consigliarmi di inviarlo alla Baldini&Castoldi. Cosa che feci nel dicembre del 2012. A gennaio 2013 ricevetti una mail entusiasta da Lorenza Dalai che fece da tramite affinché anche altri leggessero il manoscritto in casa editrice. Poi però la cosa si fermò, la casa editrice venne chiusa, riaperta, passò un anno. Il 20 dicembre 2013, intorno alle tre del pomeriggio – ricordo anche l’ora – ricevetti una telefonata da Cristina Lupoli. Ennio Flaiano diceva: “I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume”. Per quanto mi riguarda, uno dei migliori me lo sono giocato quel pomeriggio di dicembre, con l’orecchio premuto al ricevitore, mentre Cristina mi diceva che mi avrebbero pubblicato. Firmai ad aprile del 2014, il libro è uscito a maggio del 2015.
Luce, la protagonista del tuo romanzo, trascorre le giornate davanti alla tv, non lavora, non esce, a stento parla con la madre e il fratello. Riprende in mano la sua vita grazie alla nipote Viola, una bambina di cinque anni che non parla con nessuno e che con lei invece tornerà a farlo. Com’è nata l’idea di questi due personaggi che usciranno dai propri silenzi, sostenendosi a vicenda?
Le storie sono percorsi che si servono di azioni e personaggi, ruotano attorno a un centro pressorio, qualcosa che pulsa e si sposta sotto la trama e che rimane insoluto. L’atto creativo di per sé è qualcosa che mantiene una forza inespressa e un che di non compreso e oscuro a chi lo compie. E le idee non viaggiano all’interno di un tempo vettoriale, non iniziano e non finiscono, sono “essenti” continuamente, e fanno gnocco con tutti i tuoi pensieri, la tua vita, le vite degli altri, i pensieri degli altri; una rete intricata, uno gnommero gaddiano aggroviglia tutto, io non faccio altro che rimanerne impigliata in un particolare momento. Luce e Bambina sono due fili intricati tra loro, ognuno con i propri nodi a segmentarne il singolo fluire. Cesare Pavese diceva: “Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri”. Il fatto è che a volte preservare la nostra solitudine diventa l’unico modo che abbiamo di stare accanto a qualcuno, l’unica modalità che riusciamo a mettere in atto, a distanza di modi – tuoi e degli altri – di comunicare, e paradossalmente è proprio la solitudine che ci mette in contatto.
Molti dialoghi, fitti di domande, sono privi di punti interrogativi e virgolette che distinguano un personaggio dall’altro, un pensiero da un pensiero espresso. Scrivi seguendo il flusso dei pensieri dei personaggi. È il tuo stile di scrittura che si è formato nel tempo o è stato un lavoro funzionale a questo romanzo?
Lo stile non è nient’altro che il diaframma inconfondibile con cui ognuno di noi traduce l’esperienza esistenziale, ed è un diaframma che rilascia frammenti, scaglie di sé, nel momento in cui filtra ciò che sta osservando. Inevitabilmente racconta parte di ciò che vede e parte di ciò che è. Io sono la scrittura che uso, sono il come voglio dire quello che voglio dire. Questo richiede identità, non fissità, non siamo mai identici a noi stessi, siamo un continuo mutare camaleontico e, allo stesso tempo, siamo ostinatamente fermi su più posti, sdoppiati, compresenti.
Ogni capitolo è preceduto da un’epigrafe. Pagina dopo pagina, ci si ritrova prima smarriti, poi divertiti dal tono straniante e provocatorio che sbaraglia ogni volta i piani di lettura. Qual è l’intento?
Le pagine che contengono il mio romanzo non sono sempre regolari, a volte le parole usate si aprono, si affastellano, creano percorsi a cucitura una sull’altra, proprio nell’impossibilità di mantenere una coerenza comunicativa. È un libro che ha un impianto frammentato, ma questa frammentazione viene suturata, ricucita, a ricreare uno scorrimento altro, una nuova continuità che diviene possibile solo a partire dalla natura interrotta del linguaggio. Quello che racconto è un’interruzione, tematica e formale, un cortocircuito personificato da Luce e Bambina ma anche, formalmente, da frasi che compaiono e scompaiono, le pagine sinistre, le chiamo io, sono quelle in cui la vita esterna alla storia si manifesta in tutta la sua assurda incomprensione. Come scatole cinesi, le microstorie contenute “a sinistra” sono cenni di esistenze altrui, avvisi di presenze sconosciute. Perché noi siamo questo vacare davanti ai cartelli, agli slogan, alle pubblicità, agli schermi, ai segni. La vita stessa è intasata, ingolfata di messaggi, di codici.
A intervallare i capitoli ci sono avvisi “ai signori condomini”, epigrafi con carattere grafico differente, così come inserti in neretto con carattere ancora diverso. È stato semplice comunicare ciò che avevi in mente a editor e tipografo per l’impaginazione?
Scrivere è lavorare sulla forma, scegliere, o farsi scegliere, da una forma, più o meno opaca, più o meno a rilievo. Vuol dire proprio misurarsi con il bisogno di trovare una forma adatta, la più congeniale al tuo contenuto. Raccontare una storia impone sempre e comunque una schermata di parole, anche la trasparenza è una sofisticazione, è un artificio di forma. Il mio è stato un tentativo di ricercare una “forma minima”, in tensione verso una forma massima, attraverso cui restituire la verità narrata. Una forma che fosse espressiva e comunicativa, quindi stratificata e polisensa ma anche lineare accessibile familiare. Una scrittura che fosse in grado di sovrascrivere il mondo e la vita: una scrittura sdoppiata in tante scritture quante sono le scritture che abitano il nostro mondo, il nostro presente, sempre più connesso e sovrascritto, ipersignificato e ipercodificato. La forma de “La forma” che ho dato al mio romanzo è stata capita e sostenuta, Cristina Lupoli in primis mi ha dato completa carta libera. È stato un lavoro sinergico, non ricordo una sola spiegazione faticosa data per farmi capire. Massima accoglienza e comprensione in casa editrice da parte di tutti quelli che hanno lavorato alla forma della forma de La forma minima della felicità, perdonate il gioco – di forma.
C’è una citazione di Don DeLillo, all’inizio, tratta da Rumore bianco (“Passano i giorni senza essere meta. Le stagioni scorrano. Non si prosegua l’azione secondo un piano”). Don DeLillo si ritrova poi fra le righe, le frasi in corsivo, quelle in maiuscolo. È così?
Non c’è niente di più autobiografico degli scrittori che amiamo, dei libri che preferiamo, lo dico sempre. Quando scrivi hai a che fare per forza di cose con i libri degli altri. I libri parlano sempre anche di altri libri. Testimoniano i tuoi gusti letterari, le tue inclinazioni e predilezioni come lettore. Leggere è un sostare in un luogo intermedio che non è mai completamente tuo né di chi lo ha scritto. Quando scrivi, le tue ossessioni, le tue nevrosi, le tue difformità-deformità, fanno corpo, si stratificano sulle deformità che hanno consustanziato i libri degli autori che hai amato. DeLillo è uno di questi, ma anche McCarthy, Foster Wallace, Plath, Didion, Beckett, Ionesco, Pinter, Kafka, Dostoevskij, De Beauvoir, Camus e molti altri, davvero molti altri. Sei il male tuo e quello di chi ti ha preceduto e che tu stesso hai eletto come cassa di risonanza. Perché è quello che fanno certi libri quando li leggi. Risuonano, creano un tam tam ancestrale a cui tu non puoi sottrarti.
Hai conseguito un master in scrittura per il cinema. Ti stimola più l’idea di scrivere altri racconti e romanzi o punti a una sceneggiatura?
Il mio percorso scolastico è stato un continuo svoltare. Prima di iscrivermi a lettere ho fatto architettura, ho impiegato quattordici esami prima di capire che non volevo costruire case, né tantomeno passare la vita ad arredare salotti, o a disegnare sedie. In un certo senso sapevo che volevo costruire qualcosa, solo non sapevo cosa. Nel frattempo lavoravo come ballerina, la costruzione ha a che fare sempre con un corpo da creare. La danza schiacciava questa idea di costruzione su me stessa: è un lavoro che massacra, costruendoti. Ho sempre compiuto percorsi tortuosi, capisco, solo facendo, cosa non voglio fare, ma al tempo stesso, tutto quello che scarto lo rimpasto, lo riutilizzo in altro ambito, lo mando in circolo dandogli altre direzioni. La sceneggiatura con tutti i suoi passi obbligati, l’incidente scatenante, la divisione in tre atti, l’esperienza della morte, eccetera, ti insegna che ci sono delle regoline tic-tic-tic da mandare giù, ma, insomma, perde trecento a zero contro lo scrivere narrativa.
Sei già al lavoro per il prossimo romanzo? Qualche anticipazione?
Sì, lo sto scrivendo. L’anticipazione che ti do è che parlo di qualcosa per dirne un’altra e il mezzo che uso è la danza.
Anche Massimiliano Santarossa ha pubblicato il suo ultimo romanzo con Baldini&Castoldi. Il suo Metropoli, così come La forma minima della felicità, è un romanzo che ha una voce inconfondibile. Pensi di avere qualcosa in comune con la sua scrittura?
L’Io lascia tracce dappertutto. Più la tua personalità è, nella sua multiformità, unica e distinguibile, più questo si tradurrà nella voce della tua scrittura. Metropoli è un libro con una forte identità, spero che si possa davvero dire anche per La forma minima della felicità.
Elisa Giacalone, da Satisfiction