I segreti degli altri. Intervista a Gianni Mattencini, magistrato scrittore

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41M9GfM0eOL._SX318_BO1204203200_Dalle aule di tribunale alla letteratura noir. È una figura sempre più diffusa quella del magistrato scrittore, da Gianrico Carofiglio, a Giancarlo De Cataldo passando per Massimo Carlotto. Al suo secondo romanzo è giunto finora Gianni Mattencini, magistrato da molti anni, pubblico ministero e poi giudice, oggi presidente della Corte d’Assise del Tribunale di Bari.

I segreti degli altri (Giulio Perrone editore, pp. 268, euro 16) è una storia di sangue e di odio che affonda le radici nella famiglia e in quei segreti che qualcuno talvolta custodisce per proteggere se stesso o altri familiari.

È l’estate 1964. Alla punta del molo di una cittadina pugliese si ritrovano tutti i giorni pescatori e singolari bagnanti, trascorrono il pomeriggio nella pigrizia della canicola, lontano dagli affanni quotidiani («Null’altro accadeva in quel posto se non i tuffi in mare dei pochi bagnanti, l’evento felice del recupero a riva di un pesce più grosso, il dardeggiare del sole impietoso sulla pelle di tutti […] Più raramente, l’arrivo di una nave da carico»). Tra i bagnanti, Donato Merari, un giovane avvocato in attesa di iniziare il tirocinio allo studio dello zio, e Romeo Sitri, uno degli assidui frequentatori del molo, custode di un segreto che ha segnato profondamente la sua vita.

Il giovane Donato è affascinato da Romeo, lo osserva, ne ascolta le parole, poche in verità («magro da contargli le ossa e smunto nelle guance oltre ogni dire. Bruno di pelle e nero di sole, parlava poco e piano, con voce baritonale»). Sembrerebbe un socialista con nessun altro interesse al di fuori della politica e del gioco del lotto. Così non è. Donato, sempre più impressionato dalla personalità di Romeo, comincia a indagare sulla sua vita per scoprire i segreti che quell’uomo nasconde. Si immerge così negli archivi giudiziari alla ricerca di indizi, di prove che possano condurlo a chiarire i suoi sospetti e scoprirà che il mistero di Romeo ha origine in un terribile fatto di cronaca, un duplice omicidio avvenuto quindici anni prima. Ad aver perso la vita erano stati Vito Rastelli e Pasqua Veleno, moglie e principale indiziata.

Un percorso tra faldoni, carte e interrogatori, alla ricerca della verità e di una giustizia che diventa sempre più sfuggente. Soprattutto è un’indagine dell’animo umano quella di Mattencini. Donato, a un certo punto della storia, si chiede se sia giusto che lui sappia; riflette e giunge a una risposta affermativa perché «nessuno di noi appartiene soltanto a se stesso. Siamo anche degli altri. Anzi, in un certo senso, siamo più degli altri che di noi stessi».

Elisa Giacalone


5049-gianni-mattenciniQuella del magistrato con la vocazione del giallista è una figura sempre più diffusa nel panorama editoriale (Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo, tra gli scrittori più noti). Come mai, secondo lei?

Non mi considero un giallista, piuttosto uno scrittore di storie d’ambientazione noir. Posto che non esiste una professione compatibile in termini assoluti con la scrittura creativa (ci sono medici scrittori, professori universitari, politici, filosofi, matematici, insegnanti di ogni ordine e grado – Sciascia era maestro elementare! –, bancari e fin anche calciatori e baristi… perché scrivere è un’esigenza dello spirito, un atto d’amore per se stessi e poi per gli altri), credo che ci siano cose che con il diritto o col solo diritto non si riesce a indagare e non si riesce nemmeno a dire. Cose, però, che il magistrato-uomo prova, sente e vuol capire ma soprattutto vuole esprimere e non c’è che un modo: provare con la letteratura.

I segreti degli altri” è il suo secondo romanzo. Il protagonista del primo, Nel cortile e poco oltre, è Nino Di Maggio, un uomo dal passato turbolento che alla fine della sua carriera è sospettato di un efferato delitto. In entrambi i casi, c’è un’indagine in corso. Che cosa distingue i due romanzi?

I due romanzi si distinguono fra loro per l’indagine sociologica. La ricerca alla base del primo romanzo è quella della linea di confine fra tre sentimenti dell’anziano protagonista Nino Di Maggio: il rimpianto per l’adolescenza perduta e a lui negata da una vita di triboli caratterizzata dalla rincorsa alle elementari esigenze di sopravvivenza; l’attrazione sensuale verso un fanciullo che incarna l’adolescenza che avrebbe voluto e che si trasforma quasi in trasporto pedofilo; infine, il desiderio per un figlio mai avuto che diventa bisogno esistenziale. Sentimenti misurati non su un individuo acculturato e consapevole del discrimine fra raffinate categorie di logica e di critica, ma su un poveraccio che maneggia assai male le sue stesse esperienze di vita alle quali non sa nemmeno assegnare valore.

In questo secondo romanzo si mettono a misura due esigenze umane: il desiderio di conoscere l’altro – che è ciò di cui è avido un rapporto d’amicizia che nasce – e la difesa della propria sfera intima da parte di chi coltiva un segreto doloroso. In entrambi, l’episodio criminale è un accidente. Particolarmente nel secondo romanzo nel quale non deborda da confini ben delineati.

Che cosa invece li accomuna?

La scrittura e la cura per la descrizione della psicologia dei personaggi, lo studio introspettivo. In entrambi, il lettore troverà potenti riflettori puntati sui sentimenti, sull’animo umano. L’agire dei personaggi non è mai esteriore e casuale. È il vero obiettivo, la ragione del mio impulso narrativo.

Il romanzo riporta un’epigrafe, tratta da L’asino d’oro di Apuleio. Come mai questa scelta?

Le ragioni sono diverse. Innanzitutto Romeo Sitri è un lettore di classici latini e, come lui stesso spiega a Donato Merari, gli uomini di ieri, di duemila anni fa, erano uguali a noi uomini di oggi. Leggendo i loro scritti si scopre che soffrivano le nostre stesse pene, provavano i medesimi sentimenti. Inoltre, l’epigrafe contiene la metafora della scoperta, del progressivo apparire del nuovo giorno, dell’emergere della luce, ossia della verità rispetto alla quiete della notte, che è l’oblio momentaneo che nasconde i segreti; infine, tutto questo è detto da Apuleio con mirabile sintesi e bellezza struggente.

Sentenze, ordinanze, memorie difensive, impugnazioni. Il linguaggio giuridico, come altri linguaggi specialistici, non è spesso comprensibile a chi non è del settore. Quanta riscrittura c’è, se c’è, nei suoi romanzi?

La riscrittura è la vera fatica dello scrittore. Togliere, togliere. Per la verità più che di riscrittura a me piace parlare di revisione, anzi, di revisioni. I miei romanzi ne subiscono molte. Scrivo le storie in modo sequenziale. Mai il capitolo 15 prima del 7. E prima di passare da uno a quello successivo il primo ha già una sua storia di revisioni. Poi, a romanzo finito, la pausa salutare. Quindi le infinite riletture e l’inevitabile pulizia del banco di lavoro. Però, non c’è modo di parlare di atti giudiziari senza chiamarli per nome. Né più né meno che dire “arcolaio” o “aspo,” se si parla del lavoro di una filatrice.

Quando un personaggio può dirsi riuscito in un noir, ancor più che in qualsiasi altro genere?

Non esiste formula magica, io credo. E il noir non è diverso da qualsiasi altro genere letterario. Il personaggio deve essere verosimile, ossia simile al vero; le sue azioni e i suoi pensieri, plausibili. Aborro il grottesco, non ho simpatia per gli espedienti di personalizzazione e caratterizzazione. Intendo dire: “un certo modo” di bere il caffè, di guidare lo scooter, di impugnare il telefono, eccetera. Anche se questo può suscitare simpatia, condurre a identificazioni col vincente di turno.

A chi si è ispirato per i suoi personaggi?

Oh, i personaggi. Riporto quel che ha scritto Antonio Tabucchi nella postfazione al suo Sostiene Pereira: non è lo scrittore che sceglie i personaggi, sono loro che lo vanno a trovare.

Georges Simenon in Francia ha saputo contaminare il giallo con le peculiarità del suo paese e della sua cultura. C’è uno scrittore italiano che sta compiendo un percorso simile?

Mi piacerebbe dire sì, ma la risposta è negativa. Intanto, la parte qualitativamente più significativa della produzione di Simenon non è il giallo di Maigret ma i meravigliosi romanzi di ambientazione noir. Non condivido il termine “contaminare”. Tutti i romanzieri permeano della cultura dei loro paesi gli scritti, non può essere diversamente, se l’operazione letteraria è onesta e genuina. In particolare, quelli italiani, di gialli o no, esprimono il valore aggiunto delle culture regionali, spesso così diversamente connotate le une dalle altre.

Il giallista più conosciuto in Italia è Andrea Camilleri, celebre ideatore del commissario Montalbano. Guarda gli episodi in TV, legge i suoi libri? Che cosa pensa di questo scrittore?

Guardo la TV con moderazione e seguo Montalbano che è spesso l’unica risorsa possibile della serata televisiva. Trovo il personaggio, a questo punto, un po’ consunto dall’abuso e spesso ridotti a macchietta i co-protagonisti. Trovo francamente urticante il ricorso al deus ex machina della mafia come elemento risolutivo delle vicende più intricate. A un certo punto vengono fuori le entità di Sinagra e Cuffaro e tutto torna. Non di meno, il maestro ha il primato indiscusso di aver portato alla massima estensione possibile la contaminazione linguistica dell’italiano con un dialetto-non dialetto. L’intuizione gaddiana ha trovato attuazione piena e ampio respiro nell’officina di Camilleri.

Elisa Giacalone, da Satisfiction