La sincronizzazione del dolore come perfetto antidoto ad altro dolore. È ciò che ricerca Marie Young, la protagonista del romanzo d’esordio di Merritt Tierce, Carne viva (Big Sur, pagg. 222, euro 16,50).
Marie rimane incinta a diciassette anni e, da promettente studentessa di Yale, si trasforma in una spaesata ragazza madre. Va a lavorare come cameriera in un bistrot a Dallas ed entra in una spirale di autodistruzione. Si ammazza di lavoro, fa sesso casuale con colleghi e clienti, sniffa cocaina e si brucia la pelle con un bastoncino da fonduta («Fa male ma è una bella sensazione. Cioè mi dà una sensazione di sollievo. Il dolore è reale e sincronizza tutto il dolore che ho nel resto di me stessa ma non riesco a organizzare»).
Racconta con lucidità e senza moralismi le sue esperienze, rivendicando anche quelle più dolorose come conseguenza delle sue scelte. Cameriere, lavapiatti e aiuti barman popolano il romanzo e, attraverso i loro movimenti e le loro consuetudini, il lettore assiste come dal buco di una serratura al «dietro le quinte» del ristorante. Marie si muove con disinvoltura tra i tavoli ed è scrupolosissima nel suo lavoro («Non me ne andavo mai senza lucidare i miei tavoli. Neanche una volta. Molte sere ero talmente esausta che non mi ricordavo da che punto avevo cominciato, e mi toccava lucidare tutto il tavolo di nuovo, per sicurezza»). È come madre che non si sente all’altezza del suo ruolo e si autoinfligge continue lesioni. Scena memorabile quella in cui è a casa con la figlia, che sta guardando I Robinson, e si brucia con un bastoncino scaldato sul fornello, aspettando il momento esatto in cui partiranno le risate del telefilm per non far sentire alla figlia lo sfrigolio della bruciatura sulla carne («Tengo l’asticella di metallo sopra la fiamma azzurra finché il manico di plastica non comincia a scaldarmisi fra le dita e la punta non diventa rossa, diavolesca. Aspetto che parta la risata registrata perché so che la pelle farà un piccolo crepitio che non voglio farti sentire ma che probabilmente non noteresti comunque. Sembrerebbe un normale rumore di quando si cucina. Mi premo forte addosso l’asticella di metallo e conto fino a tre prima di staccarla. La metto nella lavastoviglie, con dei pezzettini di pelle appiccicati sopra»).
Un romanzo viscerale e cerebrale insieme, pieno di sensualità. Le scene di sesso si alternano al flusso dei pensieri di Marie, attraverso una scrittura cruda e avvolgente; il ritmo martellante, per tutto il romanzo, rievoca i movimenti rapidi dei camerieri indaffarati a servire i clienti in una giornata di pieno.
Il punto di forza di Carne viva non è nella trama, è nell’atmosfera e nella voce di Marie, concitata e lucidissima, che entra in intimità con il lettore preservando però un tono quasi cronachistico. Tutta la vicenda è un tentativo spasmodico di Marie di sentirsi di nuovo viva, di amarsi ancora e farsi amare dalla figlia Ana. Deriva probabilmente da qui il titolo originale inglese Love Me Back (letteralmente «amami indietro», riamami).
Merritt Tierce, considerata tra le migliori scrittrici americane, è cresciuta in una famiglia di fondamentalisti cristiani appartenenti alla chiesa battista del Sud. Conservatrice fino all’età di ventitré anni, si allontana dal cristianesimo quando partorisce il suo secondo figlio. In comune con la protagonista Marie, Merritt ha anni di lavoro come cameriera nei ristoranti e l’esperienza di essere diventata madre molto giovane.
Pubblicato negli Stati Uniti, Carne viva è stato tradotto da Martina Testa per la casa editrice Sur. Con questo titolo, la casa editrice romana ha inaugurato una nuova collana: Big Sur, dedicata alla narrativa angloamericana.
Elisa Giacalone
Carne viva è il tuo primo romanzo: avevi immaginato così il tuo esordio o la scrittura è stata una sorpresa?
Ho seguito una strada abbastanza tortuosa. Fin da piccola sapevo che volevo scrivere, ma non sapevo come si costruiva un romanzo. Sono diventata madre di due bambini quando ero ancora molto giovane. Avevo bisogno di un lavoro, di portare a casa dei soldi, quindi non ho provato a scrivere per almeno dieci, dodici anni. Poi ho finalmente scritto un racconto. Mentre scrivevo, non immaginavo che sarebbe stato l’inizio di un romanzo. Sapevo soltanto che volevo scrivere.
Ti sei ispirata a quanto vissuto realmente? Quanta biografia c’è nel tuo romanzo?
È una domanda che mi fanno molto spesso, ma in genere non in maniera così diretta. Cercano di girarci un po’ intorno. In realtà non so stabilire esattamente quanto sia la parte reale rispetto a quella inventata. Per me tutto il romanzo ha una sua verità, anche se magari non tutti i dettagli riportati sono reali. Nel complesso, è una storia che a me sembra vera. Non ci sto girando attorno perché non voglio rispondere, è anche passato molto tempo da quando l’ho scritto e non mi ricordo esattamente quali dettagli siano inventati e quali no. È una sensazione strana e anche bella perché mi fa sentire che ho creato qualcosa che ormai ha vita propria, a prescindere dagli elementi che io vi ho inserito.
Ci sono scene di autolesionismo e sesso spinto, spesso più subìto che voluto, momenti in cui Marie sniffa cocaina e si ammazza di lavoro. È stato doloroso scrivere un romanzo così crudo?
No, non è stato doloroso. Mi rendo conto che dovrei dire di sì, perché altrimenti sembro un robottino che ha scritto questo libro su un personaggio che soffre tantissimo, senza provare alcuna sofferenza. Io volevo scrivere qualcosa di bello, che avesse sì la capacità di provocare un effetto emotivo, anche doloroso, ma dal mio punto di vista io stavo semplicemente creando qualcosa. Costruendo, fabbricando, preparando qualcosa, come quando si fa una torta o si costruisce una casa. Mi riferisco proprio al gesto del fare, del creare. Questo non vuol dire che io non investissi emotivamente in quello che stavo facendo, ma quello che mi motivava era il desiderio di creare un romanzo che provocasse emozione in chi leggesse. Io come scrittrice non provavo quel dolore, non era quella la direzione. È difficile in realtà per me spiegare questo processo. Era insomma più una motivazione la mia che una sofferenza.
Il titolo originale del romanzo è Love me back (riamami, ricambia il mio amore). Sei stata soddisfatta della traduzione italiana, Carne viva?
Sì, mi piace tantissimo il titolo italiano. Mi piace addirittura più di quello inglese. Forse quello inglese ha una valenza più sentimentale, ma proprio per questo motivo a me piace più quello italiano, perché non voglio si pensi a questo libro come a un romanzo sentimentale o romantico. Carne viva mi sembra più in linea con il personaggio che descrivo.
In alcuni capitoli del romanzo Marie usa la seconda persona rivolgendosi a sua figlia Ana e questi capitoli sono molto più brevi rispetto agli altri.
Sì, i brani in seconda persona sono più brevi rispetto a quelli riguardanti il ristorante proprio perché è molto difficile per Marie parlare del proprio rapporto con la figlia; non riesce a dire molto, fa intravedere solo per pochi momenti, sebbene molto intensi, la sua vita, i suoi sentimenti per la figlia. Fare la madre non è qualcosa che ti viene naturalmente, spontaneamente; questo è un mito, un’invenzione. Anzi, più gli uomini e le donne saranno aperti nell’accettare che ci possano essere molte difficoltà nel fare i genitori e meglio sarà.
Questa scelta di inserire i brani in seconda persona all’interno del fluire della narrazione è stata una scelta prima di intraprendere la stesura o una decisione presa in seguito?
Quelle parti sono state scritte dopo i capitoli dedicati al lavoro nei ristoranti. Sono stati scritti in seconda persona, fin dall’inizio. I capitoli ambientati nel ristorante erano talmente forti, talmente intensi che volevo inframezzarli ogni tanto con degli spazi per riprendere respiro, come delle soste. E volevo far vedere Marie, ogni tanto, anche al di fuori del ristorante. Marie è una persona distante, molto chiusa e non mi sembrava che rivelasse molto di se stessa e della propria vita. In questi capitoletti in seconda persona, invece, con l’espediente di farla parlare alla figlia, emergono altri aspetti della sua personalità.
Carne viva ha colpito molto critici e lettori per l’erotismo e il vivere estremo di Marie. Il romanzo è però anche un working class novel, è in fondo la storia di una ragazza che deve lavorare per mantenersi. L’elemento sensuale sembra aver oscurato l’aspetto sociale, di cui poco si parla nelle varie recensioni. È così? Pensi che Carne viva sia un working class novel?
Sì, questo aspetto del romanzo è per me molto importante. Anch’io vorrei che se ne parlasse di più, invece che concentrarsi sempre sulla figura di Marie come il personaggio ribelle e anticonformista. Marie è sì un personaggio trasgressivo, che attira l’attenzione per le sue azioni estreme, ma quando mi sono messa a scrivere non volevo assolutamente raccontare una donna scandalosa. Probabilmente non volevo neanche scrivere un working class novel, un romanzo proletario o cose del genere. Volevo raccontare la storia di una donna la cui vita è vibrante, appassionata, piena, intensa, funzionale quando è nel suo ambiente di lavoro.
Quando e come ti sei allontanata dal cristianesimo più conservatore?
È stato dopo che ho avuto il mio secondo figlio (il primo è stato un maschio, la seconda una femmina). Due anni dopo, mi sono allontanata dalla religione. All’epoca in cui ho avuto i bambini, ero ancora religiosa, andavo in chiesa, ma subito dopo mi sono resa conto che non potevo più continuare a vivere in quell’ambiente. Avevo circa ventitré anni e mi sono resa conto che quel cristianesimo era così patriarcale, così fossilizzato nel vedere le donne inferiori agli uomini, non potevo far crescere mia figlia con questa sensazione di non essere un individuo altrettanto valido, rispetto ai fratelli o agli altri uomini. È stata una cosa improvvisa, è come se mi fossi svegliata una mattina e mi fossi resa conto che non dovevo per forza credere in tutte quelle cose. È stata un’enorme liberazione, anzi questa sensazione liberatoria è probabilmente il sentimento più ‘religioso’, più spirituale che io abbia mai provato.
Ritieni che le donne conservatrici come sei stata tu, quando parlano di sesso e maternità, fingano per non essere giudicate? Posto che non puoi sapere cosa pensa ognuna di loro, qual è la tua idea in proposito?
Dipende moltissimo dall’interpretazione dei testi di fede, dal modo in cui certi ruoli di genere sono definiti dalla Chiesa. Molte donne imparano ad accettarli, a darli per scontati, fin da piccole. Io non credo che queste donne abbiano un pensiero consapevole. C’è intorno a loro un sistema religioso che le incoraggia a interpretare le Scritture in un modo che è stato definito dagli uomini per loro e le donne imparano a spiegare se stesse a loro stesse, secondo categorie codificate da altri. È questo il punto.
Quando un romanzo è bello? Conta di più ciò che racconta o com’è scritto?
A me interessa quasi solo il modo in cui sono scritti i romanzi. Non ho proprio nessuna tolleranza per una lingua che non sia bella, interessante. Non arrivo a leggere neanche una pagina, mi fermo al primo paragrafo. Della storia non mi importa altrettanto. Penso che uno scrittore brillante, geniale possa scrivere di qualunque argomento. Invece, senza strumenti linguistici e stilistici interessanti, anche la storia più strana, affascinante, accattivante è impossibile da salvare.
Hai già in mente la storia per il tuo prossimo romanzo, se romanzo sarà?
Sì, sarà un romanzo e avrà a che fare con i canguri. Senza rivelare troppi dettagli, posso anticipare che avrà a che fare con cosa significa essere madre, con il concetto di responsabilità e di riproduzione della propria specie. Soprattutto è il tentativo di creare un mondo completamente immaginato da me e i canguri hanno una grossa parte in tutto questo. Sarà un romanzo completamente diverso da Carne viva.
da Satisfiction